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Fake News e odio in rete: online il report dell'incontro!

Approfondimento
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Fake News - Foto 1

Quello che segue è un breve report di quanto emerso il 12 maggio 2025, durante un seminario organizzato dall'Alleanza per le Transizioni Giuste, con l’obiettivo di riflettere sulle responsabilità individuali e collettive nel contrastare la violenza verbale e promuovere un uso consapevole e rispettoso degli strumenti digitali Non si tratta di una traccia esaustiva ma contiene i principali concetti condivisi con i relatori e relatrici ed emersi durante l’incontro.

Sono intervenuti: 

  • Matteo Lepore, Sindaco di Bologna 
  • Giovanni Boccia Artieri, docente di Sociologia della comunicazione e dei media digitali all'Università di Urbino Carlo Bo.
  • Giovanni Zagni, direttore di Pagella Politica; 
  • Sara Paolella, caporedattrice Cultura di Scomodo; 
  • Michele Sorice, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la Sapienza Università di Roma; 
  • Mafe De Baggis, esperta di strategie digitali.

 

Introduzione

L’avvento di internet e dei social media ha democratizzato la produzione e la condivisione dei contenuti, consentendo a chiunque di pubblicare notizie che possono raggiungere milioni di persone senza verifiche adeguate. La rapidità di diffusione supera la capacità di correggere errori o smentire falsità. Gli algoritmi delle piattaforme digitali privilegiano i contenuti sensazionalistici che generano engagement, incentivando la diffusione delle fake news per guadagnare visibilità e profitti pubblicitari. La fiducia nei media tradizionali è diminuita, spingendo molte persone verso fonti di informazione alternative che spesso non rispettano standard giornalistici. Le fake news sfruttano i bias cognitivi come la tendenza a cercare conferme delle proprie convinzioni, rendendo difficile distinguere il vero dal falso. 

Questo fenomeno minaccia la gestione della comunicazione pubblica, compromettendo la fiducia nelle istituzioni e influenzando decisioni politiche. Gli amministratori devono investire nella formazione critica dei cittadini, collaborare con esperti per identificare e contrastare la disinformazione e rispondere rapidamente con trasparenza per mantenere la fiducia pubblica.

Accanto a queste problematiche, verrà affrontato anche il crescente fenomeno dell’odio in rete, spesso alimentato e sostenuto proprio da contenuti falsi o distorti. L’hate speech online non solo colpisce direttamente individui e gruppi sociali, ma mina il tessuto democratico, generando polarizzazione, sfiducia e paura. 

 

Matteo Lepore

Politica, isolamento e odio in rete: una sfida per le istituzioni

“L’inciviltà politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”. Non è più un problema locale, ormai è un problema globale.

Un linguaggio comune e strumentalizzato

Senza diventare complottisti – anzi, come risposta a chi ha fatto del complottismo la propria teoria – dobbiamo ammettere che esiste una correlazione tra l’internazionalismo delle destre e le piattaforme digitali, dei contenuti di disinformazione e fake news. Esiste nel senso che viene finanziato, porta avanti un linguaggio comune, e lo vediamo.

Non è più un discorso che si vede solo negli Stati Uniti o in Ungheria, lo vediamo nel nostro lavoro quotidiano. Lo vedo su di me: al di là dei cittadini che legittimamente esprimono le loro opinioni sul sindaco, quando esprimo opinioni nazionali sul governo mi ritrovo immerso in una sequenza di servizi televisivi di un certo tipo, le parole in alcuni casi sono esattamente le stesse, figlie della stessa strategia. Con un riverbero su una serie di siti internet.

L’impatto sugli amministratori

Quello che vediamo, noi amministratori che facciamo politica, è una fortissima polarizzazione: incontro persone per strada che mi abbracciano e, cinque minuti dopo, una persona che mi insulta. Io credo che questo sia sintomo di un isolamento crescente: tante persone, di fronte a questo tipo di circo, si sentono isolate. Nel caso della politica, l’obiettivo è spesso allontanare le persone, far pensare che è inutile impegnarsi, che le cose possono solo peggiorare, che sostenere un’idea è inutile, che quell’idea ha già perso. Oppure, peggio, associare a quell’idea la possibilità di subire conseguenze.

Lo vediamo tutti i giorni come amministratori. Gli anticorpi a tutto questo? In alcuni casi, ci sono altri movimenti politici che usano gli stessi mezzi per fare attivismo: i deepfake ne sono un esempio. Non li usano solo Musk o Trump, ma anche attivisti dal basso, con l’intelligenza artificiale, per criticare e rifare.

Chi detiene i mezzi di produzione?

Si apre così un dibattito sulla libertà di espressione, sulla democrazia, su come questi strumenti possano essere usati anche dagli attivisti. Però dobbiamo essere molto attenti: questi strumenti non nascono come strumenti degli attivisti, ad oggi sono strumenti in mano agli autocrati, agli oligopoli e alle grandi piattaforme. Non a caso, subito dopo l’elezione di Trump, tutta l’Europa ha ricevuto richieste di liberalizzare le piattaforme su ogni cosa: dalla tassazione alle regole.

Quando dico che la civiltà politica è diventata la continuazione della guerra con altri mezzi, intendo proprio questo. Non siamo di fronte a un dibattito sulla libertà di espressione, ma a un dibattito simile a quello introdotto da Marx: chi detiene i mezzi di produzione?

Le risposte da organizzare

Sicuramente le città possono essere una risposta: comunità che possono organizzarsi per il bene comune, rispondere all’individualismo e alla frammentazione, creando aggregazione, memoria, valori condivisi. Non significa ignorare le tecnologie, ma usarle per il bene, promuovendo una grande consapevolezza. 

Dobbiamo crescere potentemente nel nostro dibattito e nella capacità di organizzarci in questa direzione, perché qualcuno sta facendo la guerra con questi strumenti e noi spesso la stiamo subendo. Quindi non è più solo roba da romanzi distopici: è una questione maledettamente importante, da discutere e affrontare sempre più velocemente.

 

Giovanni Boccia Artieri

Fringe democracy e media ibridi: capire la disinformazione nelle nuove ecologie digitali
 

Disinformazione come ecologia comunicativa sistemica

La disinformazione oggi non è un incidente, ma il risultato di un ambiente comunicativo che favorisce la circolazione di contenuti falsi, distorti, polarizzanti e discorsi d’odio. Questo contesto impone di ripensare le categorie classiche con cui abbiamo descritto informazione e opinione pubblica: il confronto non è più solo su contenuti, ma anche sui punti di vista e sugli schemi culturali che li rendono possibili.

Le piattaforme digitali non privilegiano la verità, ma ciò che genera engagement: contenuti complottisti o sensazionalistici sono più attrattivi e diffondibili, alimentati da algoritmi che polarizzano il discorso, creando visibilità per le posizioni più estreme.

Il fact-checking, pur importante, non spegne l’onda della disinformazione, anzi, può amplificarla: ogni volta che si cita una tesi complottista per smontarla, si alimenta l’algoritmo che ne aumenta la visibilità. Le piattaforme stesse stanno abbandonando il fact-checking come responsabilità aziendale, delegandolo alle community notes (es. Meta, X), generando l’illusione di una verità “concordata” all’interno delle community.

Crisi di fiducia e ruolo dei media mainstream

Un altro elemento è la crisi di fiducia verso le istituzioni e i media tradizionali: ogni messaggio percepito come indipendente o “non allineato” diventa attraente, soprattutto in un contesto di sfiducia nelle democrazie. Questa crisi alimenta il fascino di contenuti controversi, anche se non supportati da evidenze.

Ma la responsabilità non è solo delle piattaforme: i media mainstream non sono semplici vittime della disinformazione, spesso ne diventano veicoli consapevoli o involontari, inseguendo visibilità, share e click. Programmi e talk show danno spazio a figure borderline, sensazionalismi e narrazioni radicali senza adeguata verifica, normalizzando visioni estreme e creando un ambiente informativo tossico.

Questa dinamica è evidente nel modo in cui frame cospirazionisti nati in piattaforme che abbiamo definito fringe (es. Telegram, 4chan, TikTok, canali YouTube) entrano nei media mainstream, senza passare attraverso filtri editoriali o verifiche. La disinformazione diventa così “legittimata”: contenuti nati ai margini guadagnano credibilità semplicemente perché circolano nei canali ufficiali.

Osmosi fringe-mainstream e dinamiche politiche

La relazione tra spazi fringe (come quelli che si generano nelle piattaforme con più alta flessibilità nella distribuzione di contenuti problematici attraverso canali semi-pubblici, gruppi chiusi e chat) e spazi mainstream non è di opposizione, ma di osmosi e ibridazione. I contenuti si muovono tra ambienti marginali e canali ufficiali, come nel caso delle retoriche No Vax durante la pandemia o di quella complottista MAGA negli USA. Questa intossicazione della sfera pubblica si nutre di due fattori principali:

  • l’architettura delle piattaforme, che privilegia ciò che genera engagement, a prescindere dalla veridicità (e oggi, dopo le scelte ad es. di Meta, sappiamo che il fact checking è un valore secondario rispetto alle community notes);
  • la crisi di fiducia nei confronti delle istituzioni e dei media tradizionali, che rende attraente qualsiasi messaggio che sembri “indipendente” o “non allineato”.
     

La politica non è estranea a questo gioco: spesso sfrutta consapevolmente queste narrazioni, come nel caso di ministri italiani che hanno amplificato teorie complottiste (es. “sostituzione etnica” citata da Lollobrigida).

La disinformazione diventa così funzionale al sistema contemporaneo: genera traffico e profitti per le piattaforme, visibilità per i media, e offre strumenti narrativi alla politica. Ma questo avviene a scapito della qualità del dibattito pubblico, della fiducia democratica e, in ultima analisi, della capacità collettiva di decidere insieme come vivere.

Disinformazione come agency culturale e linguaggio dell’odio

Il punto, allora, è che la disinformazione è funzionale al sistema attuale, sia per le piattaforme, che guadagnano dal traffico, sia per alcuni media, che inseguono l’audience, sia per la politica che la utilizza per le proprie narrazioni. Ma a pagarne il prezzo è la qualità del dibattito pubblico, la tenuta della fiducia democratica, e – in ultima istanza – la possibilità stessa di decidere insieme come vivere.

In questo scenario, la disinformazione è una forma di agency culturale. Non è solo un errore, è una strategia. È una forma di produzione identitaria e politica. Spesso chi la diffonde non si percepisce come disinformatore, ma come “portatore di verità” in un sistema corrotto.

E qui si inserisce un altro elemento: l’odio come collante. Nei nostri studi, abbiamo rilevato come la disinformazione si accompagni spesso a un linguaggio aggressivo, violento, polarizzato. L’inciviltà digitale non è solo sfogo emotivo, ma è una pratica di appartenenza: serve a marcare il “noi” contro “loro”. E la rete lo rende possibile, lo amplifica, lo normalizza.

Cosa possiamo fare? Tre direzioni

  1. capire l’ecologia ibrida della disinformazione, senza limitarci alla verifica del singolo contenuto, ma analizzando i circuiti di produzione e circolazione, le affordance delle piattaforme e le pratiche degli utenti;
  2. rafforzare l’alfabetizzazione critica, ma non come semplice “educazione ai media” tradizionale. Serve una pedagogia digitale che metta al centro le emozioni, la partecipazione, l’identità. Perché le persone non condividono solo informazioni: condividono chi sono;
  3. costruire alleanze tra istituzioni, media, attivismo e ricerca. Nessuno può combattere la disinformazione da solo. E spesso, chi è oggetto di campagne d’odio o di discredito (penso agli amministratori locali, ai giornalisti, ai comunicatori pubblici) ha bisogno di strumenti, ma anche di reti di supporto.
     

Concludo con un’immagine. Il nostro spazio pubblico è diventato un campo di battaglia informativa in cui verità, fiducia e partecipazione sono in gioco. Ma non è un campo neutro: è modellato da algoritmi, da modelli economici, da culture digitali. Se vogliamo immaginare transizioni giuste – ecologiche, sociali, democratiche – dobbiamo prima di tutto occuparci di come circolano le idee, le emozioni, le narrazioni.

E capire che il contrasto alla disinformazione non è un lavoro di “correzione”, ma di cura democratica.

 

Mafe de Baggis

Algoritmi, troll farm e bisogno di rassicurazione

 

Non conosciamo gli algoritmi

Quando si dice che quello che vediamo sui social media dipende in gran parte da noi non si vuole giudicare, né attribuire colpe, ma restituire e riprenderci una responsabilità che spesso ci sentiamo sottratta e che vuole anche dire libertà. Questa responsabilità passa anche dal capire come funzionano le piattaforme di social media, per esempio non parlando di “algoritmo” come se fosse una divinità onnipotente, ma di algoritmi, spesso specializzati, perché in realtà sono tanti, anche all'interno della stessa piattaforma. Per esempio su Instagram l'algoritmo che gestisce la distribuzione dei reel e delle stories è molto diverso da quello che gestisce la distribuzione dei post. 

Quasi sempre questi algoritmi massimizzano l'engagement, che vuol dire il coinvolgimento, ma il coinvolgimento non è solo like, commenti e share, ma anche il tempo che mi fermo a guardare un post e il click che faccio su un carousel e il fermo a ripartire un video. L'interazione e il coinvolgimento con un contenuto sono una dimostrazione di attenzione e determinano quali altri post ci verranno mostrati; non sappiamo e non sapremo mai probabilmente se questa scelta è orientata politicamente dall’alto o no.

Il punto è che non c’è trasparenza, cioè non sapremo mai se Meta o Google o Tiktok favoriscono una parte politica o una linea editoriale. Quel che sappiamo per certo è che Musk ha dovuto comprare Twitter per condizionarlo da questo punto di vista.

Dal punto di vista delle imprese, e lo dico in quanto pubblicitaria, e dei professionisti del marketing, la polarizzazione politica non interessa perché per un inserzionista non è tanto interessante la direzione politica del discorso, quanto la massimizzazione dell'engagement, cioè del piacere che una persona prova a stare su una piattaforma. È con questo tipo di engagement, ricco di segnali preziosi, che le pubblicità raggiungono i loro obiettivi. Meta è una piattaforma che vende pubblicità agli inserzionisti e massimizzando l'engagement fa tantissimi soldi: difficilmente metterebbe a rischio il suo business model per posizionarsi politicamente, a meno che non cambino le priorità di chi decide. 

Risposte facili e rassicurazione

C'è un altro punto su cui riflettere: noi sappiamo per certo dell’esistenza di “troll farm” e di pagamenti a persone e gruppi di persone per postare messaggi che sembrano autentici e spontanei, non postati da pagine ma da persone che sembrano reali e spesso non lo sono. Ma perché funzionano i contenuti - perché hanno un forte engagement - particolarmente semplici, che danno spiegazioni nette e chiare a problemi sociali in realtà estremamente complessi? Sono contenuti pensati e realizzati per attrarre persone in cerca di una consolazione, in cerca di una spiegazione semplice, di una causa-effetto comprensibile. La massimizzazione dell'engagement alla fine non è altro che la risposta a un bisogno profondamente umano di essere rassicurati. In questo rientrano molte situazioni anche di essere nel giusto, di non avere colpa, di essere una vittima.

Le troll farm nascono da tecniche di spionaggio e controspionaggio, soprattutto russe, ma anche la destra americana e Israele ne fanno ampio uso. Per chi vuole approfondire in particolare il ruolo della Russia, vi consiglio “Brigate Russe” della giornalista Marta Ottaviano.

La generazione di Fake news: “polpette avvelenate”

Quindi possiamo affermare che molte fake news non nascono dal basso, da persone reali Spesso arrivano da università, centri di ricerca, giornali, agenzie stampa, a volte creati esattamente con questo scopo; sono quelle che Ottaviano chiama “polpette avvelenate”.. 

Sono fonti di cui ci fidiamo, che pubblicano notizie autorevoli ma che, assieme alle notizie verificate, di tanto in tanto diffondono fake news confondendo chi legge, che pensa di avere a che fare con una fonte affidabile.

Questa dinamica di costruzione di narrazioni false ed estremizzate, ha in realtà una storia lunga: non sono tutti impazziti. Nel libro “Non pensare all’elefante” Lakoff in cui si racconta di come la destra americana ha investito, dagli anni ‘60, finanziando borse di studio, progetti di ricerca, creazione di istituti culturali e media, in questo tipo di infrastrutture che sono la base culturale e di produzione del contesto in cui Trump ha potuto vincere per ben due volte le elezioni in modo che noi troviamo sorprendente, ma non lo è per niente. 

Una delle conseguenze più gravi di questa situazione descritta è che noi improvvisamente sembriamo delle marionette, nelle mani di potenze che non sono imbattibili in nessun modo e questo non fa altro che peggiorare la situazione perché nessuno pensa di poter fare niente e invece le reti non funzionano così. Le reti sono bestie un po' strane, non semplicissime da comprendere dalla nostra capacità di cognizione perché non sono visibili tutte da fuori, tutte insieme. 


Noi siamo abituati a realtà che conosciamo, che possiamo descrivere, sintetizzare, le reti difficilmente si prestano a questo. E le narrazioni di cui stiamo parlando di fatto sono per me una specie di oppioide digitale, perché è molto più facile affidarsi a qualcuno che ci toglie le castagne dal fuoco e ci convince che la colpa è sempre di qualcun altro o di qualcos’altro: gli immigrati, Internet, gli intellettuali, il woke. 

Reagire iniziando da noi

Per capire e conoscere queste narrazioni e iniziare a smontarle dobbiamo iniziare da noi, perché anche noi cadiamo in queste consolazioni, per esempio pensando che i politici populisti e chi li vota siano stupidi, ignoranti o pazzi. Eppure hanno costruito nel tempo una strategia imbattibile, per batterli dobbiamo rispettarli, come il nemico temibile che sono. Così come le piattaforme social, pur portando con sé diversi problemi, restano un formidabile strumento che configura un diritto nuovo, inesistente in passo: il diritto di poter pubblicare il proprio pensiero.

 

Sara Paolella

Parole che feriscono: odio, linguaggio e derive identitarie nell’ecosistema social

Il mio è l’intervento di una giornalista e come tale amo le parole, e parto per questo motivo citando Orwell e il suo 1984: “la creazione di una nuova neolingua e come il modo in cui parliamo cambia la percezione della realtà e la visione del mondo”. L’hate speech per me è il centro di questa discussione. Il mese scorso è uscita la mappa dell’intolleranza di VOX (Osservatorio Internazionale dei Diritti): sono stati analizzati 2.000.000 tweet, tutti da profili italiani, e più della metà sono messaggi d’odio, con linguaggio violento e crudo: osservando questa mappa è possibile fare distinzioni tra le categorie più odiate. La cosa che colpisce è che nonostante quello che è successo quest’anno con la forte sensibilizzazione al problema dei femminicidi in Italia, le donne continuano ad essere il primo oggetto d’odio. A questo si aggiungono islamofobia e xenofobia: le donne di origine non italiana sono al primo posto per odio perché subiscono il fenomeno dell’intersezionalità (donna e straniera). Il modo in cui parliamo di determinati argomenti è solo la superficie dei problemi che abbiamo come società: le parole che usiamo ci mostrano quanto sia violenta la nostra società.

Contenuti sempre più estremi
Da due mesi stiamo lavorando sul rapporto che la Gen Z ha nello specifico con le personalità online: chi siamo sui social? Cercherò di rendere questo discorso il più semplice possibile perché alcune considerazioni sono molto complesse. 

Siamo partiti creando dei profili falsi, con tutte le attenzione del caso, alimentando gli algoritmi. Noi abbiamo fatto questo esperimento, è durato un mese. Abbiamo finto di essere personalità social: per esempio  una ragazza cottagegirl si dice molto interessata, per esempio, a benessere mentale, profumi, prodotti per la pelle. Quello che noi abbiamo fatto è stato classificare i diversi tipi di categorie che ci sono. La cosa della quale ci siamo accorti però, è che si parte da contenuti molto semplici  e si arriva poi a essere sottoposti e bombardati da contenuti che diventano sempre più violenti. C'è una grandissima estremizzazione perché venivano proposti contenuti che non coincidono con quello che si voleva vedere all'inizio. 

Bolle radicali da cui uscire

Questo ci rivela il modo in cui le cose vengono rese dinamiche social: si crea polarizzazione estrema, si creano dinamiche di scontro radicale, soprattutto si creano sempre delle bolle, quelle che abbiamo imparato a conoscere come echo chamber, nelle quali si sente soltanto quello che si vuole sentire, quindi non si sente mai un contraddittore. La domanda che resta è come rompere la bolla? Come sentire il contraddittorio, avere senso critico, dubitare di tutto e iniziare a informarsi correttamente?

 

Giovanni Zagni

Tra verità e convenienza: il fact-checking nella politica e la seduzione della disinformazione

 

Il fact-checking politico: dare contesto, non solo smentite

Pagella Politica è l’unico sito in Italia che si occupa principalmente di fact-checking politico. Quello che facciamo è prendere le dichiarazioni fatte dai politici e verificare se quello che dicono è vero o meno.

Bugie, esagerazioni e omissioni: fake news e politica

A questo punto, la domanda per quanto riguarda fake news e politica è: “Ma allora c’è una parte che dice più bugie dell’altra?”. Ovviamente devo dare una risposta diplomatica: alcuni politici dichiarano molto meno di altri. 

Il fact-checking politico quindi si occupa di dare contesto a dichiarazioni politiche, spiegando perché sono false o inesatte. Spesso è un lavoro complesso e lungo. Il punto è che il fine del politico non è dire la verità, ma convincere. Nella mia esperienza, però, è anche vero che è abbastanza raro che il politico dica il contrario della verità. Nel dibattito politico occidentale, di solito le dichiarazioni false sono esagerazioni, omissioni di contesto, prospettive parziali.

Una gigantesca eccezione è Donald Trump, che ha detto e continua a dire molte cose completamente inventate. Per lui è tornato in auge un saggio degli anni ’80 di Harry Frankfurt, poi diventato libro famoso: “Bullshit”, che descriveva una comunicazione soprattutto dei politici americani degli anni 80 in cui il comunicatore dice cose senza nessun interesse se siano vere o false, solo per scioccare e portare acqua al proprio mulino. Trump lo fa costantemente, come nella famosa storia degli immigrati haitiani che mangiavano animali domestici nell’Ohio: non importa se la storia è vera, l’importante è dirla.

Le mezze verità nel dibattito italiano

Nel dibattito politico italiano, cose così assurde sono rare. Le dichiarazioni sbagliate sono per lo più esagerazioni, come quella recente di Meloni: “Le famiglie stanno progressivamente recuperando il loro potere d’acquisto con una dinamica dei salari migliore del resto d’Europa”. Per spiegare perché questa frase è falsa, abbiamo scritto un articolo di 10-15 paragrafi dimostrando che la dichiarazione è basata su dati parziali e interpretati in modo ottimistico.  Giorgia Meloni sta essenzialmente esagerando delle cose che stanno in alcuni record economici: in questo caso è una questione di sfumature, di non dare tutto il contesto presentando le cose da una prospettiva parziale. Lo stesso vale per Matteo Renzi che dice che col Jobs Act sono stati creati un milione di posti di lavoro: non è una cosa banale. 

Dalle semplificazioni alla disinformazione digitale

Quando invece entriamo nel discorso sulla disinformazione, lì il fenomeno è più ampio: riguarda le dinamiche comunicative dei social network, le app di messaggistica e, in generale, le reti sociali digitali. È qui che si vede il vero vaso di Pandora: storie assurde, immagini generate dall’intelligenza artificiale, discorsi d’odio. Ad esempio, il video di ieri 11 maggio che mostrerebbe Macron prendere droga durante un incontro con Scholz. Forse un politico di secondo piano può riprendere quel video in un suo tweet, ma non è il tipo di contenuto che un ministro utilizza ufficialmente.

Piattaforme opache e operazioni mirate

Le piattaforme sono incredibilmente poco trasparenti: non sappiamo come funzionano davvero gli algoritmi, né chi ha pubblicato per primo un contenuto. Le piattaforme fanno battaglie feroci per impedire trasparenza su questi temi. Anche quando collaboriamo con loro, spesso gli stessi ingegneri non sanno bene cosa succede.

Qualche volta, però, abbiamo indizi: come il recente report dell’agenzia di sorveglianza francese Viginum, che ha documentato l’operazione di disinformazione russa Storm 1516, che diffondeva contenuti falsi per attaccare l’Ucraina e i politici europei più esposti: è chiaro che che dobbiamo dire è che noi non abbiamo la minima idea di quanto a questo tipo di Riprendendo Macron e il racconto sulla droga sul tavolo: teoricamente, non abbiamo fatto ancora analisi approfondite, ma è assolutamente plausibile e possibile, che nessuno sappia chi ha pubblicato quell video quindi si può dire, che possono essere stati russi o magari è stato un adolescente di etnia russa che sta in Estonia dove la minoranza russa è maltrattata e discriminata, quindi prodotto per pura rabbia. 

Disinformazione e disagio sociale: il vero terreno fertile

Vengo al punto: nella maggior parte dei casi, chi cade nei complottismi lo fa non perché sommerso da informazioni false, ma perché si sente emarginato, sconfitto, impoverito.
Pensiamo all’elettorato di Trump nel 2016: la classe medio-bassa bianca, impoverita e poco scolarizzata. Non votavano Trump perché immersi nelle fake news, ma perché quelle notizie false li confortavano nella convinzione di un complotto mondiale contro di loro.

Prima capiamo le cause vere per cui le persone trovano attraente persino chi racconta balle assurde, e prima potremo affrontare meglio questo problema.
 

Michele Sorice

Il potere di riconquistare spazio pubblico nell’era delle piattaforme
 

Il cuore del problema: il potere nei media

Il tema mi sta molto a cuore: non è tanto quello delle notizie false o dell’hate speech – sebbene ovviamente ne parlerò – quanto piuttosto quello del potere. Credo che ci sia un ragionamento che dovremmo fare, sia come studiosi sia come cittadini, su cosa significhi potere nei media e potere dei media. Si fa spesso riferimento, soprattutto nei corsi universitari, al fatto che i media sviluppino o gestiscano un triplice potere: politico, economico e culturale. Questa considerazione è banale ma è qualcosa su cui non riflettiamo abbastanza. Il potere, infatti, è alla base dello sviluppo del capitalismo digitale. Prima di tutto, dobbiamo considerare le piattaforme.

Piattaforme digitali e capitalismo della comunicazione

Le piattaforme sono l’esempio più emblematico di come il capitalismo digitale si sia evoluto e di come abbia definito le regole di funzionamento della comunicazione, diventando nel contempo il meccanismo principale per la costruzione della sfera pubblica. Questa nuova sfera pubblica è frammentata, molto articolata, e non affatto plurale. È costantemente frammentata, ed è uno degli aspetti della modernità. Non è un caso che la parola più evocata anche negli interventi precedenti sia stata polarizzazione. Ora, è vero che le piattaforme favoriscono, o meglio animano, la polarizzazione, ma non si tratta della polarizzazione politica tradizionale, quella che conosciamo da sempre, presente nella storia politica italiana anche prima del digitale. Si tratta piuttosto di una polarizzazione profonda, come la definisce uno studioso tedesco, Andreas Stetzel, un elemento chiave delle forme più avanzate di mediatizzazione.

Polarizzazione e mediatizzazione: una nuova frattura sociale

Queste nuove forme di polarizzazione non sono semplicemente una spaccatura verticale tra due mondi politici, culturali o sociali. Sono processi che tentano di estremizzare le posizioni e i contenuti condivisi. 

Estremismo comunicativo e bersagli ricorrenti

Le ricerche degli ultimi sei o sette anni evidenziano un dato importante: se i processi di polarizzazione riguardano tutte le aree politiche, quelli di estremizzazione colpiscono principalmente la destra sovranista e radicale. Questo è il punto chiave. Il Barometro dell’Odio 2024 di Amnesty International, che è stato citato anche in precedenza, individua gli obiettivi di questi processi di estremizzazione: le donne, gli immigrati, le comunità LGBTQ+, la solidarietà. Ricordiamo frasi come “vorrei vederla impalata”, rivolte alla segretaria del Partito Democratico, una frase che abbiamo visto sui social e che è stata ampiamente discussa.

Narrazioni egemoniche e delegittimazione del dissenso

Dentro le piattaforme si sviluppano narrazioni che tendono a essere egemoniche, narrazioni che costruiscono uno stereotipo e una rappresentazione della società, simili a quelle dei telegiornali tradizionali, anche se oggi tutto avviene prevalentemente sui social. Questi ecosistemi comunicativi contemporanei contengono i vecchi media (i legacy media, come li chiamiamo) e i nuovi media digitali. All’interno di queste narrazioni egemoniche osserviamo una costante e crescente delegittimazione del dissenso, che si manifesta sia attraverso un pensiero ludico che rende normale attaccare competenze e posizioni diverse, sia attraverso una accentuazione del dissenso stesso. Il dissenso non viene cancellato solo attraverso l’indifferenza o il silenziamento, ma anche attraverso un vero e proprio disinteresse organizzato.

Tra il 2022 e il 2023, il quotidiano Avvenire ha pubblicato una serie di articoli, rimasti purtroppo sotto silenzio, che segnalavano come i media mainstream avessero sostanzialmente ignorato tutti i discorsi di Papa Francesco sulla pace e sul traffico di armi. 

Dall’informazione alla disinformazione organizzata

Questo non è odio, ma è un sintomo del disordine informativo. Preferirei parlare non di disordine informativo, ma di un nuovo “ordine della disinformazione”. Parlando di disordine informativo, infatti, si presuppone che esista un ordine, quello dell’informazione, ma oggi questo ordine non esiste più. Il legame tra verità e politica si è rotto, come ha spiegato bene Arendt, e non può essere ricostruito all’interno degli ecosistemi comunicativi attuali.

Il tecnofeudalesimo e le regole interiorizzate

Quello che osserviamo sono solo sintomi. Sintomi di un’ulteriore evoluzione dell’immaginario, non tanto dell’azione politica, ma dell’immaginario stesso. È quello che si può definire tecnofeudalesimo: il grande potere delle piattaforme che definiscono le regole d’ingaggio della comunicazione e, di fatto, le regole stesse della politica. E queste regole sono ormai interiorizzate.

Attivare contropoteri e immaginare alternative

Quindi, cosa possiamo fare? Dobbiamo attivare delle forme di contropotere. Dobbiamo lavorare per la democratizzazione degli algoritmi, come accade nel fediverso, dove le piattaforme non usano timeline algoritmiche e dove gli utenti possono scegliere come organizzare l’accesso all’informazione. Le piattaforme cooperative possono superare la logica proprietaria delle big tech, logica responsabile della diffusione di fake news e hate speech, non solo per responsabilità individuali, ma anche per le stesse affordances e grammatiche costitutive delle piattaforme.

Dobbiamo creare alleanze, ma questo è possibile solo se si decide di uscire dalle logiche proprietarie delle piattaforme. Il dibattito pubblico contemporaneo si svolge tutto in una società civile che si muove dentro piattaforme proprietarie. Dovremmo iniziare a pensare a spazi digitali pubblici, non nel senso dell’istituzione pubblica, ma di spazi dei cittadini. Un gruppo di studiosi e attivisti, da circa tre anni, propone l’idea di un public service internet, e questa potrebbe essere la strada da seguire anche a livello politico, per creare contesti comunicativi diversi, per evitare odio e disinformazione, e per costruire finalmente un contatto reale tra i cittadini e le cittadine.

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